Pregava per i mafiosi uccisi e si preoccupava di chi era in carcere. La testimonianza di uno dei killer convertito. Dai malviventi era considerato incorruttibile per il suo essere cattolico praticante
Due date segnano la vita, breve ma intensa, di Rosario Livatino, il “piccolo giudice” che oggi nella cattedrale di Agrigento sarà proclamato beato, in quanto “martire in odio alla fede”. Il 18 luglio 1978, primo giorno da magistrato, ad appena 26 anni, scrive sulla sua agenda con una penna rossa: «Oggi ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura».
Poi, a matita, aggiunge: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Costituzione e Vangelo. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale ad Agrigento, andava a pregare nelle vicina chiesa di San Giuseppe. Sul comodino teneva la Bibbia, piena di appunti, e il Rosario, così come sulla scrivania in Tribunale accanto ai Codici. Fede e Giustizia. Con la maiuscola, come scriveva lui.
Il 21 settembre 1990, come tutte le mattine, stava raggiungendo il tribunale da Canicattì, dove viveva coi genitori. Sul viadotto Gasena della statale 640 viene affiancato da una moto e una Fiat Punto che lo bloccano.
Dopo i primi colpi, tenta di fuggire nella scarpata ma uno dei killer della Stidda lo raggiunge e lo finisce. Ben sette colpi, l’ultimo sul volto come a dire: «Devi tacere per sempre».
Killer e mandanti sono stati individuati e condannati (ma secondo i suoi colleghi dietro ci sarebbe anche altro). Fondamentale fu la coraggiosa testimonianza di Pietro Nava, agente di commercio presente in quel momento, e che da allora ha dovuto cambiare nome e vita, lui e la famiglia, ma che ripete «lo rifarei ancora».
Uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, in carcere si è pentito, testimoniando per la causa di beatificazione, a partire dalle ultime parole di Livatino: «Picciotti, che cosa vi ho fatto?». A ricordo c’è una stele con la scritta “A Rosario Livatino martire per la giustizia”, così come lo definì Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 dopo un incontro commuovente coi genitori del magistrato. E che poi lo portò, nella Valle dei Templi, a quel “grido del cuore”, come lo definì lui stesso: «Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!».
Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio
Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!
Giovanni Paolo II, 9 maggio 1993, Agrigento”
?Il primo, e non l’ultimo, regalo di Rosario Livatino, magistrato di grande qualità ma anche di grande umanità. Rispettava gli imputati, anche quelli che si erano macchiati dei più gravi delitti. Per lui erano innanzitutto persone. Così quando entravano nel suo ufficio si alzava e stringeva la mano. Andava all’obitorio a pregare accanto al cadavere di mafiosi uccisi. E in un caldissimo Ferragosto andò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E a chi si stupiva rispose: «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più. La libertà dell’individuo deve prevalere su ogni cosa».
Coerente con quella frase, sempre trovata in una delle sue agende. «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Soprattutto nel suo difficile lavoro. E i mafiosi lo sapevano benissimo, come si legge nel decreto di beatificazione. «Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di “Cosa nostra” Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile di Livatino, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante». E inizialmente avrebbero voluto ucciderlo proprio davanti alla chiesa dove andava a pregare.
Persona semplice non amava, per carattere e per scelta, il palcoscenico. Mai un’intervista e pochissime foto. Ma non viveva da recluso né nascondeva le sue idee. Così fu segretario della sottosezione di Agrigento dell’Anm e impegnato nell’Azione cattolica. Il 21 agosto 1989 lascia la Procura ed entra in servizio come giudice a latere e si occupa dei sequestri dei beni mafiosi, tra i primi a applicare la legge Rognoni-La Torre che introduceva questa nuova forma di contrasto. E lo fa molto bene, confiscando anche i beni di boss del suo paese, gli stessi dove ora opera la cooperative che porta il suo nome. Davvero “il piccolo giudice” era un pericolo per gli interessi mafiosi.
Tutto il territorio agrigentino era scosso da una “guerra” di mafia, con centinaia di morti, che vedeva contrapposti i clan emergenti, gli stiddari, e “Cosa nostra”, che poi si allearono proprio per ucciderlo. Livatino indaga, assieme ai suoi colleghi, scopre l’organigramma della mafia agrigentina e non solo di questa (stretta la collaborazione con Falcone e Borsellino). Poi individua i legami tra mafia, grandi imprese e politica, locale e nazionale. Combatte chi deturpa l’ambiente, decenni prima che si parlasse di ecomafie. Sapeva di essere a rischio. Scrive in una delle agende: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». E poi quasi implora: «Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori». Papà Vicenzo e mamma Rosalia ai quali lui, figlio unico, era attaccatissimo, proteggendoli. Non volle mai la scorta. «Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia».
Sensibile e generoso, andava, in gran silenzio, dal suo procuratore capo a dire: «Dottore, quel fascicolo, con “quei nomi” lì, per piacere, non lo dia ai miei colleghi che sono sposati e hanno dei figli». Quei nomi erano pericolosi, e Livatino lo sapeva bene. Eppure girava con la sua utilitaria, una piccola Ford Fiesta color amaranto, riconoscibile da lontano. Unica protezione quelle tre lettere “S.T.D.” che scriveva in tutte le sue agendine, anche in quella che venne trovata nella scarpata dove aveva tentato di fuggire. Volevano dire Sub tutela Dei, un affidarsi al Signore ogni giorno, fino a quell’ultimo giorno.
Antonio Maria Mira www.avvenire.it