Una discesa di luce, la Madre con il Figlio, l’annuncio che diventa carne. Ubaldo Casotto racconta l’immagine del Volantone di Natale 2024, Natività, 1965, di Congdon. Da “Tracce” di dicembre
«La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta». C’è una discesa di luce in questa Natività di William Congdon (1965) che fa venire subito in mente il primo capitolo del Vangelo di Giovanni. È una colata di luce che ha anche le sembianze di un utero (Non horruisti virginis uterum) nel quale sono accolti Maria e suo Figlio. Bisognerebbe poterla guardare nell’imponenza del suo originale (un metro per 80 centimetri) per essere illuminati dall’oro e dall’argento usati dal pittore, e attratti dal rilievo del colore spalmato con la spatola, un colore che diventa materia. Quando l’ho visto ho pensato a Chesterton, che dice che la novità del cristianesimo non è lo spirito, è la materia. E a quell’autografo di don Giussani che chiede che «la Chiesa esista dentro i nostri corpi e le nostre anime attraverso la materialità della nostra esistenza».
In questa Natività la Madonna, che nella prima e più famosa Natività di Congdon (1960) è seduta col bimbo in grembo, è sdraiata, come nell’iconografia orientale, come negli affreschi di Giotto della Basilica inferiore di Assisi, quell’Assisi in cui il pittore americano abitò per vent’anni, dal 1959 al 1979. Non è da escludere quindi che sia proprio Giotto la sua ispirazione. Il Bambino non è più deposto sulle ginocchia della Madre, quasi offerto a chi guarda, come nella precedente versione, qui è come in trono, ritto in braccio alla Madonna, grande, più grande di un neonato, un bimbo che come età e postura ricorda quello della Madonna dei pellegrini di Caravaggio.
C’è un’altra luce nel quadro, a sinistra, la cometa? E sotto ad essa tre uomini, i Magi, i pastori, noi?
La didascalia di questa Natività scelta come immagine del Volantone di Natale 2024 è un dialogo fra una frase di Italo Calvino e una di don Luigi Giussani.
C’è più di un’analogia tra l’inferno di cui Calvino parla ne Le città invisibili e le città reali dipinte da Congdon. C’è, innanzitutto, una premessa comune, sottaciuta ma presente: per riconoscere l’inferno bisogna avere una predisposizione al paradiso. È un’aspirazione che, paradossalmente, può essere destata proprio dall’esperienza dell’inferno.
Dice Congdon: «La guerra mi ha aperto all’amore […] La mia occupazione per i sofferenti in Italia – ero in un reparto dell’Ottava armata inglese della Croce rossa – con la mia ambulanza quasi sempre al fronte […]. Ho scoperto la sofferenza e ho scoperto l’amore».
Congdon è diventato pittore, da scultore che era, vivendo nell’inferno dei morti in Africa, in Italia e in Germania, nei lager: «Tutto questo dolore non lasciava indifferente il mio animo artistico: appena avevo un po’ di tempo disegnavo le immagini che più mi avevano impressionato. Spesso, come quando facevo lo scultore in America, erano le teste dei morenti che catturavano il mio occhio. Non potendo mettermi a fare delle statue, ripiegavo sul disegno: bastavano un foglio e un pezzo di matita o un carboncino. Allora non sapevo che questo ritorno al disegno avrebbe deciso per sempre che la mia vita d’artista sarebbe stata quella del pittore e non più dello scultore».
E ancora: «I disegni dei morenti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen vivono della mia prima autentica esperienza di vita, le mie prime opere viventi, piccoli disegni di teste di morenti. Nella guerra scopro la mia propria identità, scopro me stesso nel soccorrere i sofferenti, che significa dare nuova speranza, nuova vita ai bisognosi». A Bergen-Belsen c’erano ventottomila donne e dodicimila uomini, mischiati a tredicimila cadaveri ancora da seppellire, «si trattava, letteralmente, di separare i morti dai vivi e di tentare, quindi, disperatamente di salvare il maggior numero degli agonizzanti. Dico disperatamente perché su tutti i volti dei semivivi c’era l’ombra cupa di una certezza di morte, l’assenza quasi assoluta di ogni luce, una disperazione tetra. Dovevo fissare in un qualche modo quello che stavo vedendo […] Il dono artistico in me si è riacceso potente proprio di fronte alla morte e alla pazzia di coloro che avevano immaginato e realizzato un simile inferno».
C’è un’altra singolare analogia tra Calvino che parla di città invisibili e Congdon che dipinge, per lunga parte della sua vita, città. Per lui le città erano “persone” e la loro oscurità – in Germania «incontravamo solo macerie; gli edifici erano letteralmente annientati, le devastate città tedesche mostravano ai miei occhi l’atrocità della distruzione dell’umano» – esprimeva, era, il dolore dell’uomo.
Ma non solo le città bombardate, anche New York era una “città nera”. Così descrive il quartiere della Bowery: «Identici blocchi di case, identiche miserie ripetute strada dopo strada, come le avevo viste nei pronto soccorso durante la guerra, nei corridoi degli ospedali e nelle baracche numerate dei campi di concentramento». E poi Calcutta: il viaggio in India del 1975 che – come dice il critico Rodolfo Balzarotti, che di Congdon fu anche amico fraterno – fu «una deliberata discesa agli Inferi, qui nella stazione di Howrah rivive ancora una volta lo choc di Belsen, di fronte alle larve umane che coprono la vasta area della costruzione vittoriana». A Iquitos in Amazzonia «acqua, baracche, sabbia: la morte di un popolo setacciato di ogni vitalità, abbandonato alla miseria». Roma è una città sull’orlo dell’imbuto infernale del Colosseo. Di Napoli dipinge soprattutto carri funebri e parla del male «pomposamente esibito dall’esuberanza napoletana».
Anche in un quadro dipinto nel capoluogo campano, Naples Afternoon, come nella Natività, c’è molta luce; così ne parla in una lettera: è un «dipinto di luce e solo della luce di Napoli». Ma, a guardarlo bene – scrive Pigi Colognesi riferendo di un dialogo con Congdon –, «si scopre che questa luce lascia attoniti, incute senso di disagio e di angoscia; essa ha soprattutto l’effetto di rilevare un’ombra, nella quale si muovono, un po’ come fossero degli esseri del sottosuolo, omini stilizzati, macchine, tram».
Una speranza di aver trovato «chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno» è Venezia: «Venezia spezza il blocco della città nera e apre a una struttura per il mio passaggio per il mare Rosso. […] Venezia è musica: il suono dell’acqua che muove, che scintilla sotto i ponti e lungo i fondamenti. Le pietre, la continuità delle arcate e finestre, è tutto una musica. Anche l’odore che viene dal mare canta». Ma anche Venezia svanisce. Poi arriva Assisi. Ma fugge anche da Assisi. Per tornarvi, non per la sua bellezza, ma per reincontrare una persona, don Giovanni Rossi, che aveva conosciuto otto anni prima: «Il Signore mi concesse la grazia di conoscere l’amicizia cristiana», «nel 1959 mi arrendo a Dio».
Tempo dopo dirà di aver iniziato a capire le parole di Claudel: «La sola cosa che importa è la questione religiosa; io sono assai meno un artista che un cristiano, il quale si serve dell’arte per l’opera che Dio gli ha affidato». Scoprì che «dipingere non era il fine della mia vita ma il posto che la mia origine mi aveva assegnato nella comunità cristiana». E l’inferno? «Io entro in una santa mattina nella stazione di Milano, entro nel suo squallido inferno che per la serena gioia che mi è addosso viene tutto raccolto, come purificato, e dipingo l’inferno purificato».
www.clonline.org Ubaldo Casotto