giovedì, 21 Novembre 2024
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BENEDETTO XVI. LA DIREZIONE DECISIVA


A un anno dalla morte, un ricordo di Joseph Ratzinger e del suo profondo legame con sant’Agostino, tutto incentrato sul tema della conversione, possibile solo se si ama e ci si riconosce amati
Pietro Luca Azzaro
«Signore, ti amo». Le ultime parole di Benedetto XVI, pronunciate all’alba del 31 dicembre 2022 nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano, a pochi passi dalla tomba di san Pietro, ci riportano alla memoria quelle con cui una mattina di primavera, sulle sponde del lago di Tiberiade, il suo primo predecessore rispondeva al Signore risorto che si accingeva ad affidargli la specifica missione di guidare tutta la comunità dei suoi discepoli: «“Simone di Giovanni, mi ami?”. […] Gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle”» (Gv 21,17). Ma vengono in mente anche le parole che rivolse al Signore, a suggello della sua conversione, colui che Joseph Ratzinger aveva considerato sin dalla sua giovinezza «grande amico e maestro»: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova» (sant’Agostino, Confessioni, X, 26-27).
In effetti, quello che aveva sùbito e maggiormente colpito il giovane dottorando studioso del pensiero del filosofo di Ippona era stato proprio il punto sorgivo della vicenda di sant’Agostino, e cioè l’esperienza personale della conversione, tutta incentrata sull’amare e sull’essere amati; una dinamica profondamente umana e vera che, tanti anni dopo, Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, Deus Caritas est, sintetizzerà così: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Su questa base, grazie anche allo studio dell’ecclesiologia di sant’Agostino, Joseph Ratzinger era andato sempre più maturando la convinzione che la Chiesa è proprio «il comunicare con noi del Signore, che insieme genera l’autentico comunicare degli uomini fra loro. Per questo la Chiesa nasce attorno a un altare». E per questo l’Eucaristia è «il procedimento vivo della comunione di Cristo con noi».
Quando il Vaticano II aveva posto la questione della necessità di un rinnovamento della Chiesa, al giovane professore di dogmatica e perito conciliare – che pure auspicava un “Concilio di rinnovamento” – era già perfettamente chiaro che “aggiornamento” non poteva significare la formulazione di nuove dottrine, la creazione di un’altra Chiesa, ma facilitare invece quanto più possibile, nell’oggi e per l’uomo di oggi, l’incontro con quella Persona, quella conversione, quel comunicare, quella comunione.
In questo senso, all’inizio degli anni Cinquanta, il giovane cappellano della chiesa del Preziosissimo Sangue a Monaco di Baviera aveva visto come andasse sempre più diffondendosi un “cristianesimo per abitudine” testimoniato dal “certificato di Battesimo”, che nei fatti era però un “nuovo paganesimo”, come scriverà qualche anno dopo. Cioè un cristianesimo “convenzionale”, per così dire, in cui si ricordavano ancora le principali verità di fede e magari, quasi per forza d’inerzia, si frequentavano ancora le celebrazioni liturgiche nelle feste comandate, ma in cui si era persa la “memoria del Signore”; in cui la fede cristiana, in ultima analisi, era percepita come un passato che non c’entrava con la vita.
«Rivivere la memoria del Signore: questo è quello che chiamiamo rinnovamento, quello che chiamiamo conversione». Così Joseph Ratzinger concluse anni dopo un’omelia dedicata proprio all’attualità di sant’Agostino. Laddove invece, già molto prima, quando era professore universitario a Tubinga e Ratisbona e poi arcivescovo di Monaco e Frisinga aveva potuto osservare come proprio il progressivo affermarsi postconciliare di una certa interpretazione arbitraria del “rinnovamento” della Chiesa – che, peraltro (come negli anni non si stancherà mai di sottolineare), non trovava alcun riscontro nei documenti conciliari e nemmeno nell’idea di riforma che animava i Padri conciliari –, per una drammatica eterogenesi dei fini, rischiava di ridurre la Chiesa, nella sua dimensione quotidiana, ad arida istituzione determinata da un attivismo logorante.
«Dio che cosa vuole veramente da noi?» chiese al Prefetto per la Dottrina della Fede il giornalista Peter Seewald, a conclusione di una lunga intervista dopo la quale egli stesso sarebbe definitivamente rientrato nella Chiesa: «Che diventiamo persone che amano», rispose, «e cioè che realizziamo la nostra somiglianza con Lui. Perché, come dice san Giovanni, Egli è l’amore, e desidera che ci siano creature a Lui simili, che, scegliendo liberamente di amare, diventino come Lui, Gli appartengano e diffondano così la Sua bellezza». Nelle parole del futuro successore del Principe degli Apostoli rivive la memoria dell’incontro di Pietro col Signore risorto, e anche la dichiarazione d’amore che gli rivolse Agostino.
«Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è il momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita» (Spe salvi). L’esperienza del grande amore, maiuscolo e senza plurale, dell’amore che non tradisce, è davvero il punto sorgivo della teologia di Benedetto XVI, oggi da tutti giudicata assolutamente unica per vastità, profondità, coerenza e interna unità.
Fides quaerens intellectum, intellectus quaerens fidem, la fede cerca la ragione, e la ragione cerca la fede, diceva sant’Agostino. Non c’è pensatore contemporaneo che in modo più profondo, e insieme più immediatamente accessibile, più convincente, e insieme più entusiasmante, di Benedetto XVI, abbia mostrato e comunicato la ragionevolezza della fede, riconciliando così l’uomo moderno con la sua natura, col suo essere uomo; non c’è tra i contemporanei chi sia volato più in alto di lui sulle grandi ali della fede e della ragione, superando fideismo e razionalismo scettico-accademico, per ascendere a quell’altezza alla quale fede e ragione – frutti dell’unico Logos, del Dio amore eterno e incarnato – naturalmente tendono: alla contemplazione della verità, cioè del Signore: «Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in Te» (sant’Agostino, Confessioni, I,1).
«Due amori, quindi, hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste» (sant’Agostino, De Civitate Dei, XIV,28). Più di qualunque altro filosofo contemporaneo, Benedetto XVI ha mostrato la drammatica attualità della famosa dicotomia agostiniana. Infatti, che altro è oggi l’amore di sé fino al disprezzo di Dio se non il nocciolo di quella «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie»? Benedetto XVI ha fissato così il cuore di ogni potere totalitario: l’esclusione di Dio dalla sfera pubblica, la negazione a un tempo della più profonda verità sull’uomo e insieme della più profonda verità su Dio: l’appartenenza dell’uno all’altro, il profondo legame d’amore che li unisce, che è anche il fondamento autentico della dignità e della vera libertà di ogni uomo. Perché la vera libertà – egli ci dice sin dall’inizio del suo cammino intellettuale e umano – non è senza alcun legame, ma la strada che porta al grande legame che, riempiendo il cuore, rende veramente liberi: «Signore ti amo».
Già da giovane interprete di sant’Agostino egli aveva capito quanto fosse utopica, e persino anticristiana, l’illusione (anti) politica di instaurare il perfetto Stato cristiano in terra; tanto quanto, quella ecclesiale, di battere il paganesimo con «tentativi di cristianizzazione» basati sull’«intima alleanza» della Chiesa con lo Stato. La Chiesa si è sempre sviluppata e sempre si svilupperà «per “attrazione”: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore». Perciò, la strada per una fioritura e rifioritura della fede non è mai passata e mai passerà per la sua politicizzazione e per la trasformazione della Chiesa in movimento sociale – una dinamica che, al contrario, distrugge la fede e la Chiesa dall’interno. La strada passa e passerà sempre «dall’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita», scriverà nella sua ultima enciclica, Lumen fidei (che è anche la prima di papa Francesco): così come appunto fu per san Pietro e per sant’Agostino; e dunque passa per la presenza di testimoni, di santi: di uomini che – come Joseph Ratzinger affermò poche settimane prima di diventare papa –, «attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo […]. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».

Pietro Luca Azzaro www.clonline.org